Le Portatrici, per le quali il Generale Lequio, Comandante il settore "Carnia", ebbe parole di altissima stima e plauso, operarono volontariamente ed erano una vera e propria forza di supporto ai combattenti al fronte.
... Dal fondo valle sino alla linea del fronte non resistevano carrareccie o rotabili che consentivano il transito di automezzi o di carri a traino di bestiame. C’erano solo piste, sentieri e qualche mulattiera. Ogni rifornimento poteva avvenire col trasporto a spalla. Gli uomini erano tutti a combattere e le salmerie non bastavano e d’inverno non erano impiegabili. Le donne di Paluzza, avvertendo la gravità di quella situazione, non esitarono ad aderire al pressante invito che con toni drammatici veniva loro rivolto e si misero subito a disposizione dei Comandi Militari per trasportare a spalla loro stesse quanto occorreva agli uomini della prima linea «Anin, senò chei biadaz ai murin encje difan»: (andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono anche di fame).
Aduse da secoli ad una atavica pesante fatica a causa della estrema povertà della loro terra, quelle donne indossarono la gerla di casa - che ben potrebbe rappresentare il simbolo della loro vita - per portarla questa volta al servizio del Paese in guerra. Solo che invece di riempirla di granturco, patate, fieno e di altri generi necessari alla casa e alla stalla, esse si apprestarono con generoso slancio a caricarla di granate, cartucce, viveri e altro materiale, col peso di trenta - quaranta chili e oltre. In breve tempo si costituì un vero e proprio Corpo di ausiliarie formato da donne giovani e meno giovani, dai 15 ai 60 anni di età, della forza pari ad un battaglione di circa 1000 soldati.
Furono munite di un libretto personale di lavoro sul quale i militari addetti ai vari magazzini segnavano le presenze, i viaggi compiuti, il materiale trasportato in ogni viaggio; furono anche dotate di un bracciale rosso con stampigliato lo stesso numero del libretto e con l'indicazione dell'unità militare per la quale lavoravano.
Dovevano presentasi all'alba di ogni giorno presso i depositi e i magazzini dislocati in fondo valle, su una estensione di circa sei chilometri - per ricevere in consegna e caricare nella gerla il materiale da portare al fronte. In caso di emergenza potevano essere chiamate in ogni ora del giorno e della notte. Per ogni viaggio ricevevano il compenso di lire 1,50 centesimi, corrisposto mensilmente.
Non furono militarizzate, cioè non furono costrette al lavoro per forza di legge e soggette alla disciplina militare, ma «militare» nel più nobile significato della parola fu il loro comportamento, sempre ispirato alla fedele e scrupolosa osservanza del gravoso impegno responsabilmente assunto. Fatto il carico nella gerla, partivano a gruppi di 15 - 20 senza apposite guide, imponendosi esse stesse una disciplina di marcia. Percorso qualche chilometro in fondo valle, «attaccavano» la montagna dirigendosi ogni gruppo, a raggiera, verso la linea del fronte. Dovevano superare dislivelli che andavano dai 600 ai 1200 metri, vale a dire dalle due alle quattro ore di marcia in ripida salita.
Giunte a destinazione con il cuore in gola, curve sotto il peso della gerla in una così disumana fatica, specie d'inverno quando per avanzare affondavano nella neve fino alle ginocchia, scaricavano il materiale, sostavano qualche minuto per riposare, per far sapere agli Alpini di reclutamento locale le novità del paese e magari per riconsegnare loro la biancheria fresca di bucato ritirata, da lavare, nei viaggi precedenti. Dopo di che si incamminavano lungo la discesa per il ritorno in famiglia, ove le attendevano i vecchi, i bambini, il governo della casa e della stalla. L'indomani all'alba si ricominciava daccapo con nuova lena.
Così per 26 mesi!
Un'aliquota di Portatrici fu anche dislocata permanentemente, alloggiata in baracche poco dietro il fronte, a disposizione del Genio militare. Erano impiegate per il trasporto dei materiali necessari ai «lavori del campo di battaglia»: portavano pietrisco, lastre, cemento, legname ed altro per la costruzione di ricoveri, postazioni arretrate e per il consolidamento di mulattiere e sentieri.
Qualche volta, durante il viaggio di ritorno, veniva chiesto alle Portatrici di trasportare a valle, in barella, i militari feriti o quelli caduti in combattimento. I feriti venivano poi avviati con le ambulanze agli ospedali da campo; i morti venivano pietosamente seppelliti nel Cimitero di guerra di Timau, dopo che le Portatrici stesse avevano scavato la fossa.
Durante i violentissimi attacchi nemici del 26 e 27 marzo 1916, che portarono alla perdita del Pal Piccolo e alla sua riconquista dopo furibonde lotte corpo a corpo con 708 uomini fra le nostre fila fuori combattimento, di cui 190 morti, 573 feriti e 25 dispersi, le donne di Timau corsero ad offrire la loro opera quali serventi ai pezzi di artiglieria, chiedendo nel contempo di essere tutte armate di fucile. l loro impiego non fu necessario, ma il generoso gesto rincuorò i combat
tenti suscitandone l'ammirato riconoscimento. L'opera delle Portatrici, svolgendosi in zona di operazioni, non era davvero priva di rischi e di pericoli. Una di esse, infatti, Maria Plozner Mentil, giovane madre di 32 anni, con quattro figli e il marito combattente su altro fronte, giunta col suo carico sino alla Casera Malpasso, a quota 1619, il 15 gennaio 1916 veniva colpita a morte da un «cecchino» austriaco. La salma fu poi collocata nel Tempio Ossario di Timau, accanto a quelle dei 1637 soldati (di cui 73 austriaci) caduti combattendo sul sovrastante fronte. Nel 1955 venne intestata al suo nome la Caserma degli Alpini di Paluzza. Sabaudia, dove vivono molte famiglie friulane e carniche rimaste sempre fedeli alle tradizioni alpine della loro gente, le ha eretto un monumento nella pineta all'ingresso della città.«Maria Plozner Mentii da Timau. Colpita da piombo nemico alla roccia dei Malpasso il 15 gennaio 1916. Eroina madre di amore e sacrificio verso la Patria, insigne sublime esempio di virtú delle Carniche donne». (Iscrizione posta sulla tomba di Maria Plozner Mentil nel Tempio Ossario di Timau). Da armi austriache furono inoltre colpite altre due Portatrici di Timau: Maria Muser Olivotto, ferita da pallottola alla gamba sinistra nel febbraio 1916, mentre con un gruppo di spalatrici e di spalatori anziani era intenta a sgomberare il sentiero adducente al fronte del Monte Terzo, letteralmente sepolto e cancellato sotto un'abbondante nevicata; Maria Silverio Matiz, ferita da scheggia di granata ad un braccio nell'agosto dello stesso anno, mentre con la gerla carica saliva lungo la mulattiera per Pramosio. Senza nulla togliere al tenace valore dei soldati combattenti, non v'è dubbio che se la linea del fronte dell'Alta Valle del But potè essere sempre saldamente tenuta, salvo qualche sfortunato episodio locale subito ristabilito, parte del merito spetta anche alle Portatrici. E quando il 27 ottobre 1917 gli strenui difensori della Carnia dovettero ritirarsi lasciando le posizioni che mai avevano perduto, nonostante i continui, violenti attacchi nemici, per non essere presi alle spalle, frammiste con i soldati, in ritirata per raggiungere la nuova linea del fronte sul Grappa e al Piave dove si sarebbero poi combattute le grandi battaglie che portarono alla vittoria, camminavano piangendo per recarsi profughe in Patria anche le Portatrici; insieme con i loro vecchi e i loro bambini, avevano dovuto abbandonare le povere case e i dolci focolari per non cadere in mano nemica dopo tanti sacrifici.
Quei sacrifici, sempre affrontati con dignitosa compostezza, non potevano rimanere misconosciuti piú a lungo. Nel gennaio 1969 il Senatore Giulio Maier, figlio del cittadino di Paluzza Mattia Maier, presentava al Senato della Repubblica un disegno di legge perché fossero estesi alle Portatrici della Carnia i benefici previsti per i combattenti della guerra 1915 - 18 dalla legge 18 marzo 1968, n. 263 e cioè la concessione della medaglia ricordo in oro, della onorificenza dell'Ordine di Vittorio Veneto e dell'assegno annuo vitalizio di lire 60.000 (portato poi a lire 150.000). Da alcuni anni quel disegno di legge è legge dello Stato. Il Brevetto e l'Insegna metallica della onorificenza concessa alle Portatrici dalla riconoscenza Nazionale, posti in apposita cornice, ornano i tinelli delle loro case. Molte di loro, e sono ormai la maggioranza, prima di morire hanno voluto che sulla loro lapide, dopo il nome, fosse incisa la frase: «Cavaliere di Vittorio Veneto». Quattro parole che conferiscono nobiltà effettiva a tutta la loro vita.
Così, per merito delle sue Portatrici, un Comune della vecchia Carnía, Paluzza, porta il singolare vanto di avere nel suo territorio l'unica caserma d'Italia intestata a una donna, a Maria Plozer Mentil, e di annoverare fra tutti i Comuni della Penisola e, forse, del mondo, il piú alto numero di donne insignite di una onorificenza militare per la loro attiva partecipazione alla guerra in casa.